Nonostante il voltafaccia dell’attuale amministrazione Usa, succube degli umori alterni di Trump, l’embargo commerciale è finito e oggi l’isola è meta ambita delle multinazionali europee, con gli americani alle porte. Le grandi firme tedesche dell’abbigliamento sportivo, quali Adidas e Puma, e la sussidiaria statunitense Reebok, hanno negozi a Santiago, in calle José Saco, accanto a Plaza de Marte. Modelli meno costosi, comunque fuori dalla portata della maggior parte dei cubani.
A Calle Obispo all’Avana fanno bella mostra profumi Chanel n° 5e dentifrici Colgate. Negli alberghi di Miramar, le tiendas interne, parte del monopolio statale, espongono scarpe Nike a 127 CUC, e jeans Diesel a 120. Se li godono i turisti e una élite di benestanti che sta emergendo dalla massa dei quasi 700.000 cuentapropistas (lavoratori in proprio), operanti nel settore alimentare, trasporti, costruzioni e arredamento, oltre che nel ramo import. Difatti, vestiario, elettrodomestici e tecnologia cellulare d’avanguardia hanno rivoluzionato il mercato locale dei beni voluttuari. Favoriti da una dogana compiacente che, anche se a caro prezzo, consente l’ingresso a una certa varietà di prodotti esteri.
Molte casas si sono equipaggiate con postazioni Wi-fi, comprando da ETECSA (compagnia statale che controlla Internet) telefono e router (450 + 37 CUC) e pagando 30 CUC mensili per 30 ore di connessione. Vendendo la stessa ora per 2 CUC a più clienti, se il traffico è alto, i guadagni sono notevoli, una volta ammortizzati i costi iniziali.
Allo stato attuale, nonostante le sue aperture, la società post-castrista rimane una delle più sbilanciate del continente americano a livello giustizia sociale. Le “dispari opportunità”, offerte alla cittadinanza dal connubio Stato/liberismo privato, abbinano ancora una volta il lavoratore alla figura manzoniana del vaso di coccio tra i vasi di ferro. Che lavorino per governo o per cuentapropistas, costoro prendono comunque gli stessi soldi. Tale status quo evita conflitti con le maestranze che operano all’interno di strutture statali, mentre gli imprenditori si rifanno di tasse e costi sui salari infimi che infliggono ai dipendenti. Continua su Il Fatto Quotidiano
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