Per riassumere la sua vicenda prendo le parole di Massimo Cavallini sul Fatto Quotidiano del 24 luglio 2012.
Oswaldo Payá, cattolico e leader del Movimiento Cristiano Liberación (ovviamente illegale) fu il dissidente che, a cavallo tra il vecchio ed il nuovo millennio, lanciò il cosiddetto “Progetto Varela” (da Felix Varela, prete cattolico ed illustre personaggio della lotta per l’indipendenza cubana).
Paradossalmente, fu proprio la natura “non sovversiva” del Progetto Varela a sconcertare prima e, quindi, a far tremare Fidel e l’intera corte del castrismo.
Su basi assolutamente costituzionali – quelle, per l’appunto, definite dall’articolo 88 della Costituzione varata nel 1976 – il Progetto lanciava, infatti, una raccolta di firme (almeno 10mila) per un referendum teso a modificare la legge suprema dello Stato, introducendo articoli che, senza ambiguità, garantissero una serie di inalienabili diritti (libertà di associazione, di parola, di stampa) riaprendo le porte, in economia, all’iniziativa privata.
Era l’ottobre del 1999.
In meno di tre anni di molto intesa attività, sfidando minacce e pressioni, Oswaldo Payá ed i suoi riuscirono a raccogliere 11.020 firme (tutte autenticate) che il 10 marzo del 2002 vennero inappuntabilmente consegnate, come richiesto dalla legge, alla Asamblea Nacional del Poder Popular.
Tutto regolare. Tutto secondo il dettato della legge.
La richiesta di referendum per“iniziativa cittadina” (la prima nella storia di Cuba) era, finalmente, una realtà…
E referendum fu. Non quello richiesto dal Progetto Varela, naturalmente, ma quello che il governo “contro-lanciò” quasi immediatamente in proprio, con una spettacolare marcia del “pueblo combatiente” guidata dallo stesso Fidel Castro lungo il Malecón.
Non ci furono (è appena il caso di sottolinearlo) né urne, né schede, né (e quando mai?) voti liberi e segreti.
Solo un’altra raccolta di firme – metodicamente condotta da funzionari del governo, casa per casa, ufficio per ufficio, fabbrica per fabbrica, fattoria per fattoria – da “spontaneamente” apporre ad un documento che alla Costituzione chiedeva una sola cosa: di definire “irreversibile”, in saecula saeculorum, la propria natura socialista.
Ed i risultati dell’iniziativa furono, non sorprendentemente, plebiscitari.
Lo furono con la chirurgica e grottesca precisione che solo i regimi totalitari hanno la virtù di conseguire.
Il 98,9 per cento dei cubani – vale a dire: tutti tranne gli 11.020 traditori che si erano lasciati ammaliare dalle sirene capitaliste del Progetto Varela – firmarono la petizione governativa.
Il socialismo cubano divenne (e tuttora rimane) “irreversibile”, più o meno come costituzionalmente “eterna” e “inquebrantable” (infrangibile) era stata fino a qualche anno prima (prima che, per decenza, l’articolo relativo venisse con molta discrezione cancellato) l’amicizia tra Cuba e l’Unione Sovietica.
Meno di un anno dopo, nel marzo del 2003, il governo completò l’opera, arrestando 75 dissidenti e condannandoli – con processi “express” a porte chiuse durati, in media, mezza giornata – a pene tra i 15 ed i 28 anni di carcere.
Tra essi, una quarantina erano stati ufficiali di complemento del piccolo esercito che aveva raccolto
le firme del Progetto Varela…
L’ultimo Oswaldo Payá – quello ucciso in un incidente stradale le cui circostanze sono e, data la trasparenza che regna a Cuba, quasi certamente rimarranno oscure – era quello che restava di quell’impresa tutt’altro che a lieto fine.
Di lui resta, comunque, quell’ “irreversibile” che, per suo involontario merito, è ancor oggi scolpito nel marmo della costituzione della Repubblica. Un aggettivo che sottolinea, ovviamente, non la irreversibilità del socialismo, ma l’immobilità imbalsamata d’un regime totalitario...
Rimane però ancora pieni di dubbi la sua morte.
Si è trattato di un incidente o una fine provocata dai servizi segreti cubani?
E' significativo oggi risentire le sue parole in una intervista dove emerge il pensiero pacifico di un strenuo difensore dei diritti e della giustizia.
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